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Ogni volta che Berlusconi l’accarezza, la pancia degli italiani risuona come un tamburo ed emette suoni intensi come gli applausi che hanno accompagnato la performance del cavaliere a Lampedusa. Peccato che quando Berlusconi avrà tolto le tende dalle istituzioni repubblicane (un giorno accadrà, se non altro per raggiunti limiti di età) resterà intatto il gorgoglio delle pance italiane, il loro appetito di effetti speciali, di promesse da suk, di parole rumorose. E finirà che ce ne fabbricheremo uno di legno, di Berlusconi, come i naufraghi bambini del “Signore delle mosche”.

In termini medici Silvio Berlusconi, con le sue menzogne, le sue grossolanità, i suoi deliri latini, è solo il sintomo. La patologia siamo noi. Capisco che a scriverlo così mi sento come certi irrimediabili anziani annoiati e sfiduciati: ma stiamo parlando di una stagione politica e civile lunga quasi come il ventennio di Mussolini e abbastanza capiente da raccogliere un’intera generazione di italiani. Che sono cambiati. In peggio. Lo dico anche da siciliano, addolorato non tanto dalle palle spaziali che recitava il premier sul palchetto di Lampedusa ma all’applauso isterico che gli tributavano gli isolani, come se davvero la risposta alla guerra in Africa e alla disperazione dei migranti fosse un green da 18 buche e un casinò. A un certo punto Berlusconi ha detto, come nemmeno Maria Antonietta avrebbe osato fare, che aveva incaricato il suo economo di comprare una casa da un milione e mezzo di euro sul’isola e che quel gioiellino lo avrebbe messo a disposizione dei villici locali: quando vi sentirete arrabbiati venite pure a imbrattarmela, se questo poi vi fa star meglio… Come le brioches lanciate alla plebe dai balconi di Versailles.

Ai francesi però girarono le palle, e la regina ci rimise la testa. Agli italiani, le palle non girano mai. Un po’ pacifisti, un po’ paraculi, aspettiamo sempre la sconfitta dei nostri rais prima di presentar loro il conto. Solo che Berlusconi non arriva da Marte. E’ italiano, italianissimo. E ci rassomiglia anche nei suoi numeri da cabaret. Prendete questa cosa della guerra. Ho visto certi onorevoli signori dell’opposizione dichiarare, con l’occhio lucido d’emozione fisso nella telecamera del tg, che la mozione sulla guerra loro non solo l’avrebbero votata ma avrebbero sostenuto ogni altra misura che servisse a ristabilire un clima di verità e di legalità in Libia. Sono gli stessi signori che non hanno mosso un muscolo negli anni in cui i nostri governi (tutti: di qua e di là) stipulavano fieri patti d’amicizia con Gheddafi. Adesso vogliono trascinarlo davanti a un tribunale internazionale dimenticando che tra gli imputati, per coerenza, meriterebbero di sedere tutti i ministri e i capi di governo europei che hanno garantito impunità, protezione e gloria politica a Gheddafi negli ultimi quindici anni.

Ci siamo imbarcati, intruppati nella retorica occidentale come giovani marmotte, in una guerra di cielo, di terra e di mare che abbiamo chiamato umanitaria perchè serve a salvare le vite dei libici perseguitati dal tiranno. Ma quegli stessi perseguitati, se arrivano a nuoto sulle nostre coste, li rispediamo a calci a casa loro perché la solidarietà si fa solo a casa degli altri, con le cannonate della no fly zone. Questo siamo, questo facciamo. E quando un guitto si presenta a per raccontarci del casinò e del campo da golf, invece di prenderlo a pernacchie gli regaliamo i nostri più sentiti applausi. In quel momento è a noi stessi che applaudiamo, al piacere delle nostre furbizie, agli egoismi di un popolo che si commuove per i morti e se ne fotte dei vivi, derubricandoli sbrigativamente a clandestini.

E allora, se vogliamo davvero sbarazzarci di Berlusconi, cominciamo a chiamare le cose con il loro nome. Quella che si combatte in Libia si chiama tecnicamente guerra. Con le sue otto basi militari operative e i suoi caccia in volo l’Italia è tecnicamente in guerra. E l’articolo 11 della Costituzione è ormai tecnicamente carta buona per avvolgerci i fritti di paranza che si cucinano a Lampedusa. Sarebbe un atto di lealtà proporre l’abolizione di questo articolo spiegando che ormai democrazia, modernità e petrolio non sono più in condizione di ripudiare la guerra. Al contrario, abbiamo bisogno di legittimarne definitivamente l’uso. L’importante è la scelta degli aggettivi da collocare accanto alla parola “guerra”: chirurgica, umanitaria, intelligente… Si presenti una bella mozione, magari bipartisan e con la benedizione del Quirinale, per spiegare che le guerre ogni tanto vanno fatte, e pazienza se il nemico di turno ieri l’altro era nostro amico.

Io, comunque, voterò contro.

Claudio Fava

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