Leggo una nota a firma congiunta degli Onorevoli Incardona e Minardo Nino sul rischio che sta correndo la sanità in provincia di Ragusa: immobilismo, mortificazione delle professionalità e così via. A loro vorrei ricordare che per essere credibili si deve essere conseguenti e non nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi o cospargersi il capo di cenere dopo anni di allegro e da loro condiviso governo della sanità ragusana, pur tuttavia voglio prenderli sul serio, e allora dobbiamo dire con estrema chiarezza che senza un linguaggio comune a tutti (medici, malati, sani, uomini, donne).Senza un modello comune di costruzione della salute, di difesa della capacità e della possibilità di vivere e senza un modello comune di malattia, l’assistenza sanitaria è diventata una torre di Babele, una costruzione sempre più costosa e sempre più inefficiente. L’unico antidoto consiste in un “linguaggio comune” e un “modello comune”. Questa è la vera urgenza culturale e politica. Il diritto inalienabile della persona si è trasformato nel diritto del cliente contribuente; la soddisfazione dei bisogni di salute è diventata equivalente al consumo di farmaci e di prestazioni; si confonde l’obbligo etico e sociale di curare con l’obbligo di guarire riducendo cosi a un costo le condizioni umane inguaribili, ma doverosamente curabili, come le malattie croniche. Sarebbe salutare operare politicamente perché lo spazio pubblico si riappropri del tema della tutela della salute per riscrivere l’incontro più giusto tra il diritto individuale e il bene comune. L’appropriatezza è garanzia di equità e di sicurezza: l’abuso di farmaci e di prestazioni non è soltanto un danno economico, ma si traduce in effetti collaterali, in errori, in confusione diagnostica, in sofferenza psicologica del malato. La cultura dell’appropriatezza nasce da un lungo lavoro di relazioni tra professionisti indipendenti, tra cittadini informati, tra politici programmatori: appunto quel linguaggio “comune” e quel modello “comune”. Il compito è arduo: da anni la sanità è stata sottratta alla dimensione politica, intesa come “polis” e consegnata alla tecnica aziendalista fintamente neutra,come ben sa chi come me opera al suo interno, ma ancor di più si oppongono altri interessi. All’offerta delle prestazioni sanitarie concorre non solo il pubblico, ma quel sistema misto pubblico – privato accreditato previsto dal servizio nazionale. L’imprenditoria sanitaria non è un’imprenditoria come un’altra: innanzitutto tratta un bene fondamentale, e in più ha un solo grande cliente, la Regione che rimborsa le prestazioni. E’ evidente che chi ha l’interesse a mantenere alti i margini delle entrate non potrà che alimentare bisogni presunti su un terreno fertile, cioè sulla più sensibile delle questioni umane, la paura delle malattie e della morte. Questo accade quando la salute diventa una merce, anziché un diritto e un bene collettivo. Siamo convinti che il SSN soffra di un problema di sostenibilità politica prima ancora che finanziaria: per questo occorre tornare alla centralità del suo carattere universalistico, incoraggiare la partecipazione delle organizzazioni sociali e delle professioni sanitarie, affermare la titolarità e la responsabilità pubblica in quel difficile compito di conciliazione tra diritto individuale e interesse collettivo: per mantenere equa e sostenibile la nostra sanità. Oggi la vera discontinuità creativa è la conservazione di questi principi e di questo modo di essere: la modernità che può tutelare la buona salute dobbiamo costruirla su queste basi se vogliamo guardare serenamente al futuro della sanità anche nella nostra provincia privilegiando il “pubblico” non il “campanile” o la salvaguardia di piccoli interessi di bottega di dirigenti sanitari troppo spesso lottizzati o, ancora, il “privato” ben presente e tutelato anche nella nostra piccola realtà ragusana.
Dr. Enzo Cilia
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